Superano quota 250 i dipendenti stranieri della Fondazione Don Gnocchi


Pubblicato il 11.07.2005 in News Sociale

''C'è carenza di personale italiano disposto a lavorare nella strutture dedite ai servizi alla persona''. 

Maria, ad esempio, è un'nfermiera professionale rumena e lavora all'Istituto  Palazzolo: ha lasciato il proprio paese, perché lo stipendio non le permetteva di garantire alla figlia una vita dignitosa. Sabino, invece, era  medico in Perù e ora lavora nella Fondazione come operatore socio-sanitario,  in attesa che gli venga riconosciuto il titolo in Italia. Anche Elvis è peruviano: arrivato a Milano in cerca di fortuna con una laurea in matematica in tasca, ha lavorato in un'impresa di pulizie prima di diventare operatore socio-sanitario. E oggi vuole iscriversi alla facoltà di Scienze infermieristiche. 
I peruviani sono i più numerosi. Un'ottantina, degli oltre 250 dipendenti  stranieri distribuiti nei vari Centri della Fondazione, in gran parte extracomunitari, che rappresentano l'8% del personale complessivo. Molti arrivano dalla Romania. Tanti anche dal Marocco, dall'India e dell'Albania. Sono sempre meno gli italiani che scelgono certe mansioni: "L'introduzione di questa  tipologia di forza lavoro nelle aziende è dettata da un'esigenza primaria  del mondo produttivo in generale e dei servizi alla persona, nel caso specifico della Fondazione Don Gnocchi. Si è verificata, infatti, una trasformazione nella cultura del lavoro che, penalizzando le professioni legate al lavoro manuale e di bassa specializzazione, ha determinato, come  diretta conseguenza, l'allontanamento degli italiani da tali mansioni", fa  notare la Fondazione. "Il nostro è un Paese che produce sempre di meno - spiega Enrico Maria Mambretti, responsabile del Servizio Personale della Fondazione Don Gnocchi -, mentre il settore dei servizi è in continuo sviluppo. Il problema  sorge poiché, per quanto riguarda tutto ciò che ruota intorno ai servizi  alla persona e al mondo sanitario in generale, l'Italia non ha sviluppato  percorsi formativi appropriati, mirati, né un'idea progettuale generale su  che professionalità servano a tale realtà nelle varie articolazioni e il reale fabbisogno di risorse. Da ciò deriva la carenza di personale italiano  disposto a lavorare nella strutture dedite ai servizi alla persona".
In  questo quadro critico per le aziende che si ritrovano carenti di manodopera,  l'immigrazione è una risorsa e la presenza degli immigrati rappresenta un'opportunità  da non sottovalutare. «Decidere di assumere dipendenti extracomunitari è una scelta obbligata - aggiunge Gabriele Terruzzi, responsabile delle Risorse Umane dell'Istituto Palazzolo di Milano, il Centro "Don Gnocchi" con la più alta percentuale di dipendenti stranieri -, condizionata dall'andamento del mercato del lavoro. Non ci sono molti giovani italiani disposti a intraprendere la professione di infermiere, operatrore socio-sanitario (OSS)  o ausiliario socio-assistenziale (ASA), per cui l'offerta risulta alquanto carente. Ci sono, invece, molti giovani extracomunitari disposti ad accettare questo tipo di lavoro". Spesso, inoltre, gli immigrati offrono manodopera qualificata come accade in  maniera consistente all'interno della Fondazione: il 32% dei dipendenti  extra-comunitari, infatti, ricopre il ruolo di infermiere professionale, il 59% è addetto all'assistenza, quindi in possesso di una qualifica  professionale come Oss o Asa. Di conseguenza sono proprio i Centri che occupano attività di Residenza Sanitaria Assistenziale o di lungodegenza  assistenziale a veder impiegato il maggior numero di tali risorse: delle  vere e proprie realtà lavorative multirazziali.

"La gestione di un gruppo multietnico comporta anche una serie di criticità - spiega Terruzzi -. In primo luogo il problema è linguistico: non  sempre gli operatori sanitari parlano bene l'italiano. La maggiore  difficoltà subentra nel momento in cui nello stesso reparto lavorano persone  provenienti da Paesi diversi, quindi con culture completamente differenti.  Del resto, è noto che dietro differenze linguistiche si celano differenze  culturali e che il confronto tra culture non è semplice. Date queste premesse, un piano di formazione mirato diventa sempre più una necessità. E ancor più significativo è che tale necessità sia nata in reparto: la richiesta di un momento formativo che tenga conto di queste tematiche è stata fatta, ad esempio, proprio da una nostra caposala". "Ci sono popolazioni - continua Mambretti - che hanno sviluppato accurati percorsi assistenziali perché culturalmente rivelano una spiccata sensibilità verso gli anziani che, nella maggioranza dei casi, vivono a casa con le proprie famiglie. In alcuni Paesi la mancanza di risorse costringe i familiari dell'anziano ricoverato in struttura a sostituirsi del tutto al personale specializzato.  Sono popolazioni più attente ai bisogni del prossimo. Ciò è evidente anche  nelle modalità con la quale si relazionano alle persone ricoverate: sono  espansivi, trattano il paziente con il coinvolgimento tipico di un familiare. Talvolta hanno difficoltà ad armonizzare le proprie istintività  assistenziali con un sistema organizzativo dove i canoni di professionalità e le responsabilità assistenziali sono diverse da quelle vissute al proprio Paese; il sistema lavorativo tende a favorire l'efficacia dell'azione assistenziale e l'efficienza del sistema, e in tale contesto organizzativo non sempre le modalità assistenziali fatte anche di slanci affettivi trovano spazio. Per cui possiamo dire che sul grande valore della sensibilità si intrecciano aspetti complessi relativi all'integrazione".
Da non sottovalutare, a tale riguardo, l'opportunità di stimolare nuove  sensibilità e supportare i diversi impegni della Fondazione nelle attività di solidarietà internazionale: "La Fondazione Don Gnocchi - conclude Mambretti - è anche un'importante ong impegnata in progetti in quasi tutti i continenti e ciò spinge a intraprendere nuovi percorsi e a lanciare nuove sfide. Perché non pensare di dar vita a percorsi di cooperazione con altri Paesi per selezionare in loco personale da formare in Italia e che, alla fine del percorso, possa ritornare nel proprio luogo di origine a garantire continuità con i progetti avviati? Se un filippino o un peruviano comprendono il nostro modo di fare assistenza, è importante che ci aiutino a trasmettere e a tradurre la nostra cultura in ambito formativo nel loro Paese, al fine di condividere l'impostazione valoriale delle nostre modalità di intervento. Siamo ancora agli inizi e abbiamo pochi anni di esperienza per trarre delle conclusioni, ma i presupposti per il consolidamento di una realtà lavorativa multietnica sono sicuramente già attivi".

 

Redattore Sociale


Autore: Lab