Diritto alla salute dei senza dimora, "ci pensa il non profit ma non basta"


Pubblicato il 20.12.2016 in News Sociale

Manca un percorso sanitario specifico per la presa in carico del senza dimora, come manca l’integrazione socio-sanitaria: tra resistenze e difficoltà pratiche, la presa in carico è complessa. Dopo l’ennesima morte di un clochard a Roma, l’analisi dell’help center di Roma: “Un problema irrisolto, su cui occorre accendere una luce”


È morto “di freddo”, ma a ucciderlo è stata la strada d’inverno: come ogni anno, al primo irrigidirsi delle temperature, la notte ha portato via un uomo senza dimora. È accaduto a Roma, in via del Trullo. Stasera, per lui, Sant’Egidio celebrerà una veglia: per Grzegorz e per chi, come lui, rischia di morire in strada.

L’inverno è una sfida per i senza dimora: e ammalarsi può diventare un dramma, la malattia può portare alla morte. Come accadde a Modesta Valenti, morta nel 1983, a 71 anni, su un marciapiede della stazione Termini, perché gli infermieri dell’ambulanza non si presero cura di lei . Perché “anche una banale influenza, o una febbre a 38, mette a dura prova chi debba passare la giornata (e a volte anche la nottata) su un marciapiede. – commenta Alessandro Radicchi, presidente di Onds (Osservatorio nazionale del disagio nelle stazioni) – E complicata è la presa in carico sanitaria, soprattutto quando una malattia è più grave, o in presenza di una disabilità cronica”.

Il “bisogno sanitario” del senza dimora difficilmente trova infatti una risposta adeguata, anche perché spesso non viene espresso. “Parliamo in questi casi di ‘sindrome da congelamento’ – ci spiega Radicchi – e ha a che fare con l’emarginazione cronica di queste persone, che arrivano a coprirsi di strati per isolarsi completamente dal mondo esterno. Tanto che queste persone, quando sono malate o ferite, riescono quasi ad anestetizzarsi: pensiamo ai senza dimora ricoperti di ulcere, che spesso incontriamo per strada: difficilmente si lamentano, raramente ammettono di star male e spesso rifiutano la presa in carico”.

D’altra parte, però, non esiste un percorso specifico e adeguato di presa in carico socio-sanitaria per chi vive in strada, di cui invece “c’è urgente bisogno – afferma Radicchi – Non esiste, nonostante i numerosi tentativi e l’impegno di tante associazioni, un valido sistema o una strategia di supporto per far sì che la persona senza dimora, quando inizia a star male, sia inserita in un percorso di cura adeguato e tutelata. In questo momento particolare del Natale, occorrerebbe riaprire una riflessione su questo tema e affrontarlo con la giusta determinazione, mettendo a sistema le varie esperienze, portate avanti soprattutto dalle associazioni”. Tanti sono infatti i progetti promossi dal non profit per assistere e prendere in cura, anche dal punto di vista sanitario, chi vive in strada. “Il non profit supplisce alle carenze dell’istituzione. Ma occorre che questa supplenza si trasformi in strategia strutturale”.

Cosa accade infatti oggi, quando una persona senza dimora sta male? “Innanzitutto occorre distinguere tra diversi livelli e ambiti di malattia – spiega Radicchi – Pensiamo a malattie gravi, come i tumori, o il diabete. Oggi, in assenza di un sistema di presa in carico specifico, il senza dimora che subisce una chemio o una dialisi, per esempio, torna immediatamente in strada, con tutta la sua sofferenza e spossatezza. Per queste persone, allora, occorre pensare un sistema di accoglienza specializzata, che sia distinta ovviamente da quella ospedaliera, la quale non può assolvere a questo compito”. Per quanto riguarda le persone con disabilità cronica, “sono tante quelle che vivono in strada, con un arto solo o con una sedia a ruote. Per loro due sono le difficoltà principali: primo, l’assenza, in molti centri, di spazi e bagni accessibili. Secondo, la doppia difficoltà del reinserimento sociale: un disabile che arrivi dalla strada ha grandissime difficoltà di trovare un lavoro”. Ci sono poi le “malattie mentali in strada: un capitolo vastissimo, che interessa buona parte della popolazione dei senza dimora. Difficile dire se ‘nasca prima l’uovo o la gallina’, ovvero se venga prima la vita in strada o la malattia. Certo posso dire che, specie nel caso dei giovani migranti e transitanti (che rappresentano la maggioranza dei senza dimora), se in un primo momento i loro occhi sono pieni di speranza e di vigore, la vita in strada li consuma giorno dopo giorno, spegnendo il loro sguardo e ammalandoli rapidamente. Prima che ciò accada, queste persone andrebbero intercettate e prese in carico”.

Complesso è anche il percorso che si attiva in caso di emergenza sanitaria. “A me o ai nostri operatori è accaduto in diversi casi di dover chiamare l’ambulanza: e quasi sempre abbiamo trovato una forte resistenza da parte degli operatori sanitari, in parte anche giustificata dalle difficoltà organizzative e pratiche. Basti pensare che un’autoambulanza, dopo aver trasportato un senza dimora, deve star ferma 4 ore per la sanificazione. E con la penuria di mezzi, soprattutto in una grande città come Roma, questo rappresenta un problema”. Lo stesso accade in pronto soccorso: “qui spesso il senza dimora viene registrato come ‘anonimo’ e lasciato nel triage in codice bianco per ore. Facile che poi se ne perdano le tracce, o perché viene mandato via, o perché semplicemente se ne va. E’ questo il motivo per cui noi cerchiamo sempre di farlo accompagnare da un operatore: con tutti i costi che questo comporta”.

Il sistema sanitario, insomma, non è minimamente attrezzato per farsi carico della malattia di chi vive in strada. “io non dico che ci debbano essere corsie preferenziali, ma a fronte di queste maggiori vulnerabilità servono protocolli di presa in carico specifici, anche per evitare che la malattia, anche la più banale, possa avere conseguenze tragiche. Occorre ideare e costruire questo percorso, a partire dall’intervento in strada: l’help center della stazione Termini, per esempio, ha un infermiere che girà a bordo dell’unità mobile. Abbiamo verificato quanto questo sia prezioso, perché la cura sanitaria rappresenta un’arma in più rispetto all’intervento puramente sociale: accettando di farsi curare, la persona accetta anche di essere presa in carico. Ma un medico a bordo costa 50 euro al giorno: il non profit arriva dove può, ma le istituzioni hanno il compito di trasformare le buone prassi in strategie”. Per questo, Radicchi rilancia il suo appello: “mettiamoci intorno a un tavolo, associazioni e istituzioni, ciascuno con le proprie esperienze, le proprie risorse, le proprie proposte. E affrettiamoci a colmare questo vuoto, che spesso ha conseguenze drammatiche”.